mercoledì 28 ottobre 2015

Il Coraggio di Essere Vigliacca

Ciao a chi mi legge!

Questo post sarà necessariamente in italiano.
Mi spiace per tutti coloro che abitualmente transitano su questo blog e non hanno dimestichezza con la lingua italiana (vi assicuro che sono tanti... e ne sono orgoglioso!).

Consentitemi di dedicare questo post alla mia amica Marina Lenti, che mi accolse nel lontano 2000 nel fan club dei Marillion e di riflesso rese possibile la stesura di ciò che seguirà, come pure mi convinse a dare vita a questo blog e infine ha un gatto a cui ha dato nome Brave.

Molti di voi mi hanno chiesto di pubblicare nuovamente il "famoso" racconto che scrissi ispirandomi all'ottimo album dei Marillion la cui copertina è riportata qui a sinistra.

Il racconto mi venne fuori quasi di getto nel 2001, successivamente all'uscita di Anoraknophobia, creando un parallelismo tra le vicende della giovane protagonista del concept album e una frase di un brano dell'album che era appena uscito.
Coloro addentro all'universo Marillion comprenderanno, man mano che la storia si dipanerà, che i riferimenti ad alcuni brani del panorama Fish/Marillion sono più d'uno...

Scrissi il racconto prima di vedere il film tratto dall'album e qualcuno si sorprese per le analogie. Evidentemente Steve Hogarth ci mise il cuore e riuscì a trasmettermi, attraverso i testi, le esatte sensazioni che aveva provato lui.
O forse ero io ad essere molto più ispirato di oggi... rileggendolo mi piacerebbe tornare a scrivere con questa intensità emotiva!
Fu publicato nel n. 35 della fanzine Real To Read e, per quel che ne so, fu molto apprezzato dagli stessi Marllion.

Insieme con Marbles, Brave rappresenta, a mio modo di sentire, l'apice della produzione Marillion era H (che sta per Hogarth), nonostante ci siano ottimi momenti anche in altri album, purtroppo generalmente trascurati a torto, dal panorama musicale internazionale di settore per motivi che non sto qui a spiegare...

Comprenderete che pubblicare un racconto ispirato ad un concept album in un blog di questo tipo comporta degli innegabili vantaggi!

Ma ora basta con le chiacchiere ed entriamo nella cupa atmosfera di questa storia di orridi abusi e umane miserie.


IL CORAGGIO DI ESSERE VIGLIACCA
Racconto liberamente ispirato al concept album BRAVE dei Marillion
2001 Vincenzo M. Vitagliano





Capitolo 1
    Pace, alla fine.
    Mi sembra di poter vedere la mia immagine riflessa negli obiettivi dei fotografi, che finalmente hanno il loro pane quotidiano, ormai abituati a non avere pietà, terrore, angoscia. E’ forse terrorizzato il becchino quando seppellisce l’ennesimo cadavere? Ed il macellaio prova forse pietà quando spara il colpo di pistola nella testa dell’ennesimo bue? Certamente qualcuno di loro non farebbe del male ad una mosca ma....si sono abituati!
    L’abitudine è un male che colpisce in profondità, in modo subdolo. Ti sembra di non subire mai cambiamenti, ma in realtà ti sei soltanto abituato a trascurare i piccoli cambiamenti quotidiani che avvengono in te.
    Te ne rendi conto soltanto quando ti accorgi che non ti ribelli più a quello che un tempo ti sembrava insostenibile, quando riesci ad ascoltare un brano di musica che prima non sopportavi, quando accetti con pazienza che si approfitti della tua persona, quando passivamente ti adegui alle circostanze senza lottare per recuperare il terreno perduto.
    A nessuno piace soffrire, così ci si abitua...a tutto.




    Capitolo 2

    Ho atteso ancora qualche minuto dopo che il loro respiro si è fatto più profondo e regolare. Ora dormono di sicuro.
    Non smettevano più di mugolare, urlare sottovoce, fare l’amore.
    Povera mamma! Pensava che sposare un uomo in divisa le avrebbe garantito un futuro tranquillo e sereno!
    Come erano belli nella foto con la cornice d’argento esposta sulla cassettiera nella stanza da letto! Lei gli stringeva forte il braccio e lo guardava sorridente. Lui non rideva...era serio e fissava l’obiettivo della macchina fotografica. Il suo sguardo era identico a quello che mi fissava mentre, ancora ragazzina, giocavo seduta a terra con le gambe divaricate per far spazio alla scena in cui si muovevano le mie bambole, con i loro abiti ricchi e sgargianti.
    Ora è il momento di andare. Scivolerò silenziosa dalla mia stanza nel soggiorno e da lì, attraverso la finestra che ho avuto cura di lasciare aperta, scivolerò in strada verso la libertà, le vacanze permanenti. Devo soltanto far attenzione a non fare il minimo rumore: è stato nell’esercito ed ha affinato l’udito e l’attenzione. Se mi scoprisse non me lo perdonerebbe. Non lo accetterebbe ancora!

    Il mio caro paparino non è abituato a subire un torto, tantomeno nell’ambito familiare! Le rare volte che la mamma gli si è messa contro, per evitarmi una punizione esemplare, ha dovuto subire la sua ira e la pesantezza degli schiaffi, i pugni e i calci.
    Ricordo ancora l’imbarazzo delle persone che la incontravano nel supermarket, con gli occhiali scuri ed i segni delle percosse sul viso, sulle gambe, sul collo. Nessuno aveva il coraggio di chiederle che cosa fosse successo, come mai fosse ridotta così. Io mi stringevo alle sue gambe con forza, sperando che così lei potesse sentire quanto le fossi vicina, inconsapevole di quanto mi sarebbe accaduto qualche anno dopo. Soltanto una volta, forse quella in cui la mamma era piena di lividi sul volto e zoppicava vistosamente, una cassiera si prese la briga di chiamare l’assistente sociale.
    Quando la signorina varcò la porta eravamo sole, io e la mamma, sedute sul divano del soggiorno. Ci fece un sacco di domande, voleva sapere se c’erano problemi in famiglia, se papà fosse dedito all’alcool o alla droga. Mia madre rispose che era tutto a posto, che non poteva desiderare un marito più affettuoso e generoso e che i lividi se li era procurati cadendo dalle scale.
    Io la guardavo stupita. Come poteva mentire? Io lo avevo visto darle addosso, colpirla in volto con schiaffi e pugni, prenderla a calci nella schiena, sulle gambe e nello stomaco! Come poteva mentire?
    Sono problemi familiari” – mi disse appena la signorina, incredula ma impotente, se ne fu andata.
    Per quanto tempo pensi che possano rimanere tali?” – pensai. Avevo soltanto dieci anni.
    Di lì a poco avrei capito cosa intendeva dire la mamma. Ci sono segreti che devi portare in te, non puoi riferirli ad anima viva, perché nessuno ti crederebbe ed alla fine la colpa ricadrebbe sempre su di te, anche se colpe non ne hai!





    Capitolo 3

    Erano passati circa due anni dal giorno in cui venne a farci visita l’assistente sociale. Da quel giorno le cose non erano cambiate di molto, ma l’atteggiamento di mio padre, almeno nei miei confronti, era mutato: era più indulgente, non mi puniva più quando ero in ritardo per la cena, se portavo un brutto voto a casa, se rispondevo in modo disattento alle sue domande o...non rispondevo per niente.
    Una sera, mentre la mamma era in cucina a lavare i piatti, era davanti alla TV e mi chiese di sedermi in braccio a lui. Sulle prime gli risposi che mi dava noia, ma poi, allo scopo di evitare eventuali polemiche e ritorsioni violente, di cui non avevo dimenticato il dolore e l’efficacia, mi sforzai di accontentarlo. Sulle prime sembrò contento come un ragazzino, prese a farmi saltellare sulle ginocchia e a farmi il solletico.
    Quando abbassai la mia guardia istintiva e cominciai a rilassarmi divertendomi al suo gioco, con una mossa fulminea mi attirò con violenza contro il suo petto, mettendomi la mano sulla bocca per coprire il mio grido misto di stupore e dolore. Durò pochi attimi, in ogni caso interminabili per me...il tempo necessario a vederlo alzare gli occhi al cielo in un attimo di estasi, riprendere il suo ghigno ed intimarmi di mantenere il silenzio altrimenti me la sarei vista con lui.
    I miei occhi sgranati, inizialmente abbassati per la vergogna, si posarono su di lui con tutto lo sdegno di cui ero capace. Se uno sguardo avesse la forza di uccidere, mio padre sarebbe morto lì, su quel divano, tanto era l’odio e lo schifo che provavo per lui.
    Quando fui libera fuggii verso la mia stanza piangendo in silenzio, mentre sentivo scorrere il sangue lungo le mie gambe. Ero sconvolta e terrorizzata...e così rimasi per i successivi tre anni. Anni in cui eventi del genere ebbero a ripetersi con frequenza sempre maggiore, man mano che le fattezze del mio corpo mutavano da quello di una ragazzina tutt’ossa a quello di un’adolescente con i cuscinetti di tessuto adiposo ai punti giusti.
    Come potrei descrivere le sensazioni che provavo? Ero terrorizzata quando la mamma usciva per una commissione oppure era distratta in cucina o era al telefono con qualche sua amica logorroica e vanìloqua. Durante ognuno di questi momenti era possibile sentire la sua mano afferrarmi un seno, infilarsi sotto la gonna o stringermi il volto per attirarlo verso il suo. A nulla valeva fingere di studiare, guardare la TV o altro...la sua volontà era l’unica che contava nella nostra casa.
    Quando rientravo a casa ero costretta a verificare prima l’eventuale presenza di mia madre e, nell’eventualità fosse assente, facevo di tutto per nascondermi in giro aspettando il suo rientro. Questo spesso causava l’ira di mio padre che mi puniva fingendo di essere arrabbiato per il mio ritardo. In realtà era arrabbiato per la mancata occasione di approfittare di me.
    Povera mamma ! Quante volte si è messa tra di noi e quante botte ha preso al posto mio!
    Quando la cosa si ripeteva frequentemente ero costretta, mio malgrado, a rientrare e subire le sue violenze, per non vederlo infierire sulla mamma.
    Come può crescere sana di mente una ragazza in queste condizioni? Non può...
    Per un anno, dai 14 ai 15, mia madre mi mandò anche dallo psicologo, perchè non riusciva a spiegarsi da quale parte del mio cervello provenissero i disegni che appendevo alle pareti della mia stanza. Inutile dire che nascosi tutto anche al dottore, come alla mamma: “Sono problemi familiari” mi rimbombava in testa. Quanto male mi aveva fatto la mamma, senza rendersene conto, dicendomi quella frase qualche anno prima!

     
    Capitolo 4


    Il giorno del mio quindicesimo compleanno fuggii per la prima volta da quella prigione.
    Papà (ma può chiamarsi padre un uomo che infierisce sulla persona che dovrebbe proteggere?) aveva organizzato tutto in modo perfetto: c’erano i festoni, i dolci, gli zii, i nonni...e basta!
    Quando venne il momento di spegnere le candeline, la nonna mi attirò a sé chiedendomi perchè alle mie feste non fossero mai presenti altri ragazzini della mia età. Fu allora che compresi maggiormente di essere in una situazione disperata...il fatto che qualcun altro si fosse accorto che ero chiusa, dimessa ed insicura mi fece impazzire di rabbia e dolore... fuggii via sbattendo la porta di casa e correndo a rotta di collo giù per le scale.
    Le ricerche non incominciarono subito. Mio padre non diede peso al mio gesto e nella sua incrollabile sicurezza era convinto che avrei fatto presto ritorno a casa, con la coda fra le gambe.
    Trascorsi la notte, nascosta come un animale ferito, piangendo e mugolando dietro ad una siepe nel parco. La mia disperazione raggiunse il culmine quando mi resi conto che non sapevo dove andare. Ero completamente sprovveduta! La mia squallidissima vita si divideva fra la scuola, che era a tre isolati dalla mia abitazione, il parco, dove spesso andavamo la domenica mattina per mostrare agli altri che la nostra era una famiglia come tante altre, e la mia casa. Raramente i miei invitavano amici a casa ed altrettanto raramente si andava fuori da amici. Ed io stessa non riuscivo a stringere rapporti con i miei coetanei perchè mi sentivo diversa, non sopportavo i loro racconti familiari, i loro discorsi sul sesso e sull’amore! Spesso pensavo a quanti di loro mentissero spudoratamente, pur subendo le mie stesse torture fisiche e psicologiche. Perchè avrei dovuto essere la sola? Non era giusto che fossi la sola! Eppure così mi sembrava dai loro racconti...Li odiavo.
    La stanchezza mi vinse ed al mattino mi svegliò un ceffone del mio amato genitore.
    Sei stata in giro a fare la puttana?” – urlò tirandomi su per un braccio.
    Lo schifo che provo per te non me lo ha permesso!” – risposi piangendo.
    Inutile dire che le pene corporali per la mia fuga, seppure passata sotto silenzio agli occhi dei parenti e dei pochi amici, furono terribili e durarono per i successivi sei mesi.
    Il mio corpo era sovente coperto di lividi ed escoriazioni e facevo fatica a trovare una scusa decente per ogni domanda che mi venisse rivolta sull’argomento. Fra le persone che mi conoscevano serpeggiava la convinzione che me le procurassi da sola, perchè ero pazza furiosa.
    Non potevo dar loro torto! Il mio comportamento non era quello tipico di una ragazza della mia età: avevo spesso sbalzi di umore, ero sempre a disagio, balbettavo quando obbligata a parlare con i miei coetanei, non uscivo mai con loro, preferivo rientrare a casa da sola, sebbene raramente qualcuno si fosse offerto di accompagnarmi, e se capitava che insistessero scappavo per far perdere loro le tracce. La loro era una curiosità morbosa, la mia un’immensa paura che scoprissero il mio atroce segreto. Come avrei potuto spiegare ad un mio accompagnatore casuale perchè non avevo alcuna intenzione di rientrare in casa, perchè mi nascondevo dietro la siepe di fronte all’ingresso del palazzo fino a quando rientrava mia madre e soprattutto perchè lasciavo che mio padre mi toccasse mentre studiavo, leggevo o guardavo la TV?
    Ad ogni modo la consapevolezza di non essere pazza ed il dolore che provavo per le ferite non visibili dall’esterno mi rendevano ancora più triste.
    In quel periodo fui ulteriormente colpita dalla sfortuna, perchè mia madre dovette andare ad assistere ad una sua sorella malata e pertanto non c’era verso di sfuggire agli assalti del mostro. Prima o poi dovevo fare rientro a casa! Anche perchè dovevo preparare la cena, fare le faccende, subire le sue angherie e, di tanto in tanto, quando mi rimaneva il tempo, magari di notte, dedicarmi allo studio ed alle mie passioni: la musica ed il disegno.
    Quando era appagato mi guardava passargli davanti mentre preparavo la cena o fare qualche faccenda di casa e sorrideva. Pensava di avermi finalmente piegata con la sua violenza.
    Hai capito che è meglio non discutere con me! “ – disse una volta mentre mi costringeva a sedermi su di lui.
    La violenza genera violenza” – risposi. Ma non intese. Era già distratto dal mio corpo.




    Capitolo 5

    La seconda volta che fuggii i miei genitori furono costretti a chiamare la Polizia. Stavolta la disperazione era tale che non ero impaurita dalle insidie della città: la droga, i ladri, i violenti...cosa potevano farmi che non avevo già subito fra le mura di casa?
    Rischiavo la vita? Era forse vita quella che avevo trascorso negli ultimi quattro anni?
    La fuga durò 16 giorni. Nel mio vagare incontrai tutta la varia umanità che si aggira nella città: drogati, ladri, disperati, maniaci sessuali, lestofanti e morti di sonno. Preparai i giacigli per dormire con ubriaconi e semplici fuggitivi come me. E’ tremendo doverlo ammettere, ma non ebbi mai la sensazione di sentirmi in pericolo come quando ero sola con mio padre!
    Mi procuravo da mangiare passando per le cucine dei ristoranti dopo l’ora di pranzo. Nessuno mi rifiutava un pò di pasta, una salsiccia o una polpetta. Mi sentivo un cane randagio, ma ero serena. Finalmente ero padrona di me stessa: qualsiasi cosa sentissi il bisogno di fare, potevo farlo in quell’istante, senza regole da seguire, camicie da stirare o cene da preparare. L’unica cosa di cui non sentivo assolutamente il bisogno era un uomo.
    Per questo mi parve strano quando, al tredicesimo giorno della mia fuga, incontrai quel ragazzo dai capelli lunghi all’angolo della stazione centrale e sentii una forte simpatia per lui. Ero attratta dal suo modo di fare gentile ed incerto. Mi chiese timidamente una sigaretta, gli risposi che non fumavo, ma sapevo come procurarne una.
    Quando gli ebbi procurato la sigaretta lui si mosse per procurare il cibo. Trascorremmo due interi giorni insieme, in giro per la città, eludendo la polizia che era sulle mie tracce ormai da tempo.
    In serata trovammo un giornale in cui si parlava di me, della “fuggiasca senza motivo”.
    Una famiglia come le altre” – recitava l’articolo – “un menage familiare idilliaco. Perchè è fuggita senza lasciare traccia? Alcuni amici di scuola dicono che è sempre stata un pò svitata...”.
    Dovreste vedere i disegni nella sua stanza!...” – riportò una delle poche amiche della mamma che aveva avuto la ventura di varcare la soglia della mia stanza.
    Il mio occasionale amico mi osservò ed io intuii che si aspettava una spiegazione, ma quando vide che non avevo alcuna intenzione di darne, e per questo mi intristii, non volle insistere, anzi prese a fare lo scemo per farmi tornare a sorridere...e ci riuscì.
    Aveva uno strano modo di fare, non smetteva mai di sorridere, mi prendeva bonariamente in giro, specialmente se si accorgeva che diventavo pensierosa. Stavo bene con lui...davvero bene!
    Verso sera ci dirigemmo verso una casa abbandonata in cui viveva una parte dei disperati della città, una sorta di “Ospizio dei Poveri” autogestito, ma sfortunatamente molto più piccolo dell’enorme palazzo che si trova a Napoli in piazza Carlo III.
    Sulla soglia di una stanzetta, ricavata in una stanza più grande da séparé di cartone, c’era un pezzo di cartone con su scritto il mio nome: avevano rispettato il mio posto! Per una volta non l’avevano buttato via. Forse incominciavano a volermi bene, a tollerarmi...o forse nessuno aveva avuto bisogno di quel materasso!
    Fu forse per questo evento che mi sentii più rilassata, più tranquilla. O forse fu soltanto la vicinanza di quel ragazzo dolce e allegro, che stava al mio fianco senza mai chiedermi nulla, senza mai esagerare, che mi faceva sentire bene con le sue attenzioni e le sue buffonate.
    Ci accoccolammo vicini e lui prese ad accarezzarmi una mano. Gli dissi che non mi piacevano le effusioni e le smancerie, che queste cose esistevano soltanto nei film. Si ritrasse. Poi prese a chiacchierare e pian piano, senza che me ne accorgessi, fui io a stringergli la mano. Era la prima volta in vita mia che sentivo fluire calore nel mio cuore e sentivo il bisogno di comunicarlo. Allora sciolsi ogni indugio e per la prima volta nella mia vita accennai al mio problema: gli parlai della pena che provavo per mia madre, del ribrezzo che provavo per mio padre e sentii la sua mano fremere di disappunto, chiudersi quasi a pugno, come se avesse voluto colpirlo con tutto il suo disprezzo!
    Dopo il mio racconto incominciai a piangere, ma il mio pianto non era più di dolore, ma di liberazione: finalmente ero riuscita a comunicare a qualcuno tutto il mio disagio, la mia pena, il mio dolore. Lui mi strinse forte al suo petto e chinò la testa sulla mia spalla. Rimanemmo così per un pò. Quando mi sentii partecipe delle sue tenerezze scivolò con dolcezza su di me e accarezzandomi dolcemente il volto rigato dalle lacrime si adagiò fra le mie gambe. Adesso desideravo anch’io tutta la dolcezza e la tenerezza di un rapporto finalmente condiviso. Eppure avevo una strana sensazione di incompletezza, come se mi mancasse qualcosa a cui non potevo rinunciare.
    Fu a questo punto che gli sussurrai: “Usami violenza...altrimenti non riesco a sentirti!”
    Lo sentii ritrarsi, il suo cuore come un macigno, rigirarsi sul lato opposto e singhiozzare.
    Non riuscii a dirgli niente, perchè niente c’era nella mia testa in quel momento, un buco nero nello spazio profondo.
    L’unico essere umano con cui ero riuscita a parlare, che era riuscito a darmi conforto, ottenne da me soltanto silenzio ed apparente noncuranza.
    Quando capii, dal suo respiro pesante e regolare, che aveva preso sonno, mi rivestii e fuggii anche da lui: ancora una volta sola.
    La polizia mi ritrovò al parco, mentre prendevo il sole sdraiata su una panchina, e mi riportò a casa fra le mie urla, gli strepiti, i calci e i pugni, dati e presi.
    Passai l’intera giornata a rispondere elusivamente ai giornalisti ed a subire gli abbracci di mio padre, falsamente affettuosi, davanti ai fotografi.
    ...è stata soltanto una bravata di una ragazzina inquieta....La giovane fuggitiva non ha retto la lontananza dai suoi amati genitori” – riportarono i giornali il giorno dopo – “Tutto è tornato come prima!”
    Quegli imbecilli, che non si erano minimamente curati di comprendere la verità nascosta dietro alle mie parole, non avevano minimamente idea di quanto avessi desiderato che non tornasse mai più niente come prima. Purtroppo anche stavolta il destino aveva voluto che ritornassi fra le mura domestiche, le mura che per la maggior parte della gente sono sinonimo di pace e tranquillità, mentre per me erano sinonimo di umiliazioni, violenza ed abusi.
    I giorni seguenti furono apparentemente tranquilli...eravamo sotto stretta osservazione della Polizia, che temeva una mia nuova fuga, e della stampa, morbosamente legata all’unico fatto di cronaca che, in quel periodo, valesse la pena di seguire.
    Seguitavano a farmi domande, alle quali non potevo rispondere sinceramente...ed infatti non rispondevo per niente! I miei si concedevano con piacere agli sciacalli per poter dire loro quanto fossero contenti di avermi ritrovato, che la loro vita in quei sedici giorni era stata un inferno.
    In realtà credo che l’inferno l’avesse patito realmente soltanto la mamma, che mi sembrò più stralunata e remissiva del solito. Chissà quante botte aveva preso!
    Ormai rinforzata e rinfrancata dall’esperienza vissuta, cominciavo finalmente a ribellarmi al potere di mio padre.
    Infatti in questi ultimi due mesi è riuscito soltanto raramente a mettermi le mani addosso. Le ho prese, certo...le ho prese pesantemente, ma non gli ho dato la soddisfazione di infilarsi fra le mie gambe.
    L’ultimo tentativo lo ha fatto stasera. Ero nella mia camera a studiare, quando l’ho sentito armeggiare vicino alla porta, chiusa a chiave per precauzione.
    Cosa vuoi? Vattene!” – gli ho detto – ma mi si è strozzato un urlo in gola quando ho visto che, chissà con quale marchingegno, era riuscito ad aprire la porta!
    E’ saltato verso di me e mi ha preso per un braccio. Mentre tentava di prendermi l’altro, gli ho sferrato un calcio fra le gambe e gli ho conficcato la penna in un braccio.
    Credo che le sue urla di dolore si siano potute sentire a tre isolati di distanza. Stavolta ero fermamente convinta che se avesse tentato ancora di abusare di me l’avrei ammazzato...non so come, ma l’avrei fatto!...Se non avessi visto mia madre piangente sulla soglia della porta.
    Lascialo fare!” – ha urlato la mamma con il fiato residuo che aveva in gola – “altrimenti ti ammazza...ci ammazza!...ci ammazza!....” e poi è crollata a terra piangendo disperatamente.
    Tu...sai?...sapevi?...da quando?” – le ho detto balbettando stupita, impietrita mentre quell’energumeno si rialzava, quasi ridendo come il Joker di Batman, e saltellava per far ritornare quei suoi maledetti testicoli nella posizione corretta.
    Da sempre!...dalla prima volta!...scusami figlia mia, ma avevo troppa paura...troppa vergogna! Come potevo mettere la nostra famiglia sulla bocca di tutti? Sono cose delicate, queste!”
    Sono problemi di famiglia...e tu...hai preferito che tua figlia...andasse in pasto a questa bestia?...per non sentire i giudizi dei vicini?...tu...sei...mia madre?” – le ho detto con un sentimento misto di disprezzo e compassione.
    Ora è tutto chiaro. Una persona non può essere così distratta, così in buona fede. Una mamma riesce a vedere i cambiamenti repentini di umore di un figlio, riesce a comprendere se è a disagio, se ha qualche problema, se è triste. Mia madre non mi ha mai chiesto, in questi quattro anni, come mi sentissi, come mai non avessi amici e perchè ero terrorizzata dal rimanere sola con mio padre.
    Che razza di madre è quella che lascia il figlio da solo in mezzo al traffico? La mia...sono stata sfortunata.
    Quello che mi ha sorpreso di più è stato che lei lo ha preso sotto il braccio e l’ha portato via, come se l’indifeso, l’offeso, il tormentato fosse lui. In realtà ne è terrorizzata. E’ terrorizzata dalla sua violenza, dalla paura di rimanere sola, dalle chiacchiere della gente...
    Nell’attimo che si sono allontanati mi è stato chiaro cosa dovevo fare e sono corsa nel soggiorno, ancora tremante per quanto era accaduto, ad aprire la finestra dietro il divano, quella che dà sulla scala di sicurezza, poi sono rientrata in camera mia ed ho sprangato la porta con sedie e mobili, ma è stato tutto inutile...non li ho più sentiti...fin quando sono venuti, nella stanza di fianco alla mia, a coricarsi.

    Capitolo 6




    Ecco...ora sono fuori. Nulla può fermarmi più. Non questa volta. Ora so perfettamente dove andare e cosa fare.
    Scendo la scala di sicurezza guardinga e silenziosa. Ormai tutto il condominio dovrebbe dormire...sono quasi le tre!
    Ancora una volta (poteva mai essere il contrario?) la fortuna non mi arride. Nell’istante in cui tocco terra mi accorgo di un’ombra vicino alla concessionaria di auto all’angolo. E’ il metronotte, che sta infilando uno dei suoi insulsi bigliettini nella saracinesca. Si volta...mi vede...mi chiama!
    Se non fossi stata io, la pazza fuggitiva, non avrebbe gridato il mio nome!
    Ora so cosa significa essere su tutti i giornali, sentirsi come un animale braccato, sempre osservata, scrutata in ogni mossa!

    Mi tornano improvvisamente in mente i giorni scorsi, l’atteggiamento ipocrita delle persone che incontravo, le battutine stupide del giornalaio, l’essere additata ad ogni mio passaggio.
    E’ triste essere tristemente famosi, ma è più triste comprendere che tutto ciò di cui mia madre è terrorizzata è già presente, tangibile. A cosa è valso sacrificare me ad una causa persa in partenza? Poteva mai pensare che la gente, così desiderosa di nascondere le proprie perversioni e frustrazioni mettendo in evidenza quelle degli altri, non si sarebbe accorta di una povera fuggitiva?
    Cosa si aspettava? Che dicessero che ero una brava ragazza? Che non avevo mai mentito? Balle! Credo che abbia soltanto voluto nascondere a se stessa ciò che non era in grado di combattere, per debolezza e per paura!

    Quando lo ho a tiro gli sferro un calcio tra le gambe. Ormai è la mia specialità...non volevo fargli del male, soltanto difendere la mia privacy! Non ne ho mai avuta una!
    Per quel che mi ricordo, da quando sono cresciuta non ho mai potuto fare un bagno da sola, non mi sono mai spogliata quando lo desideravo io, ma sempre eseguendo gli ordini di quell’essere viscido.
    Si piega su se stesso, mentre scappo via verso il centro della città, ma ormai è tutto inutile. C’è trambusto nel quartiere.
    Volo verso l’”Ospizio dei Poveri”, sperando di trovare riparo e conforto fra coloro che non hanno una famiglia. Penso che la vita è strana: loro anelano ad averne una, io vorrei non averla mai avuta...!
    Non c’è più...” – mi dice un barbone che, si dice, ha vissuto lì tutta la vita.
    Non cercavo nessuno in particolare!” – gli rispondo ancora ansimando per la corsa.
    Non c’è più nessuno che possa aiutarti!” – ribatte il barbone – “neanche lui!”
    Volevo soltanto riposarmi un pò...”
    E’ inutile...sono già qui!”
    Guardo dalla finestra, senza vetro, e scorgo alcune luci blu intermittenti sul ciglio della strada.
    Sono stata troppo ingenua a venire qui!”
    Corro sul retro dello stabile e mi accuccio dietro alle auto in sosta in attesa che vadano via. Come pensavo, nessuno lì dentro ha detto di avermi vista.
    Mi aggiro ancora per la città, evitando di passare per le strade principali, fin quando arrivo sul ponte del fiume. Sono le cinque e trenta. Era qui che volevo arrivare. Guardo sotto di me. Non è poi così alto...un cinquantaduesimo piano. Icaro direbbe che cadere da una montagna non è poi così tanto, quando sei abituato a cadere dalla Luna!
    Sei abituato...
    Ti sei abituata...
    Mi sono abituata...a tutto?...
    Resto lì a fissare le rapide. Il fiume è in piena. E’ piovuto molto nei giorni scorsi. Scorre tumultuoso alzando tonnellate di fango al suo passaggio. Una busta di plastica sembra impazzita nei gorghi: sale a galla e scende sotto seguendo i vortici.
    E’ troppo leggera per affondare definitivamente e finalmente fermare la sua corsa, riposarsi” – mi sorprendo a pensare ad alta voce.
    Lo sento ansimare, correre, fermarsi dietro di me, urlare il mio nome.
    Dietro di lui sono già arrivati i poliziotti ed i fotografi. Mi hanno trovata ancora.
    Mi volto e lo fisso: “Niente è duro come l’amore” – gli dico proseguendo a voce alta il filo dei miei pensieri, sempre che ne avessero uno.
    Mi trattiene per il polso, stringendomelo fino a fermarmi il sangue nelle vene, e mi guarda con gli occhi imploranti, come soltanto lui sa fare. I suoi occhi non sono più allegri, come quando l’ho incontrato all’angolo della stazione. Lo osservo stupita. Ancora una volta il suo modo di fare mi ha sorpreso: come può un essere così mite avere una stretta così salda? Poi mi ricordo del suo pugno, stretto nella mia mano, e capisco che è disperato, esattamente come allora. Ma non c’è più tempo...la polizia potrebbe arrivare, “salvarmi” ancora e riportarmi di nuovo a casa! Mi volto verso di lui, azoto liquido nei miei occhi: “Cosa fai qui?”
    Non voglio che tu vada via...di nuovo...per sempre!”
    Nessuno ci abbandona, se vive nel nostro cuore e nei nostri pensieri...” – E’ così che faceva quella canzone? – “...Non si muore mai, si va solo da qualche altra parte...”.
    Mi sottraggo alla stretta, che non è più così forte da fermarmi il sangue nelle vene, e mi lascio andare come un Icaro impazzito.
    Pace, alla fine.

    2 commenti:

    Pino "RhumOnTheTable" ha detto...

    Grazie per averli ripubblicati.
    Sempre emozionanti.

    Il Progpromoter ha detto...

    Grazie!
    Mi sono emozionato anch'io rileggendolo!